Presentazione

AVVERTENZA: La rivista cambia natura, diventando una Collana a partire dal 2018.

Alla fine del XX secolo sono entrate in crisi le ideologie su cui si erano fondati due dogmi fondamentali intorno alla dottrina giuridica tra il XVIII e XIX secolo e che avevano costruito il sistema delle codificazioni nell'Europa continentale: il primo era il dogma della identificazione del diritto con lo Stato nazionale, il secondo era il dogma della proprietà come diritto assoluto privato o pubblico.

Dal primo dogma derivavano la svalutazione della consuetudine come fonte del diritto e la subordinazione al diritto dello Stato; dal secondo dogma derivava il numero chiuso dei diritti reali e la emarginazione della proprietà collettiva, non più riconosciuta come tertium genus tra le due forme riconosciute, privata e pubblica, di proprietà, ambedue individuali, sia la proprietà privata (di cui sono titolari il singolo, la comunione pro-indiviso e le società) sia la proprietà pubblica (appartenenti alla Stato o ad altro ente pubblico).

L'iniziativa di Pietro Nervi per la ripresa dell'Archivio Scialoja e Bolla, attraverso una nuova Rivista di studio della proprietà collettiva, coglie il momento di questo passaggio storico. L'Archivio "Vittorio Scialoja" per le consuetudini giuridiche agrarie e le tradizioni popolari italiane nacque nel 1934, a Firenze, come pubblicazione semestrale sotto la pressione del Bolla che già dieci anni prima, in un intervento presso l'Accademia dei Georgofili, proponeva la raccolta nazionale delle consuetudini agrarie, richiamandosi a Cujacio (Ad lg, 6 Dig. 1-3): Quid consuetudo? Lex non scripta. Quid lex? Consuetudo scripta.

Il Bolla, quando scriveva il suo contributo pubblicato sul primo numero dell'Archivio Vittorio Scialoja, era consapevole di andare contro corrente rispetto al Codice Napoleone e alle legislazioni che lo presero a modello. Non vi si teneva conto "delle consuetudini agrarie e in particolare delle consuetudini che regolavano la proprietà collettiva", così come Josserand (Essai sur la proprieté collective) aveva già rilevato, scrivendo nel centenario del Codice napoleonico. Nella sua battaglia contro il positivismo giuridico estremo e il tentativo di abolizione indiscriminata degli usi civici e della proprietà collettiva, il Bolla non mancava di dire che "l'ordinamento giuridico della agricoltura è un prodotto storico il cui processo di formazione è intimamente legato a fattori tecnici, economici e sociali che si svolgono nel tempo e nello spazio con le vicende dell'industria terriera, con le relazioni che vengono a costituirsi tra le classi cointeressate alla produzione, con l'ente (gruppo economico o politico) che tutela e promuove la politica fondiaria".

Quale studioso, quale avvocato e ispiratore della cultura scientifica di diritto agrario, il Bolla si pone in contrasto con la legge n.1766 del 1927, che non distingue la proprietà collettiva dagli usi civici veri e propri, attraverso l'Osservatorio di diritto agrario di Firenze, collegato con l'INEA di Roma nel decennio del 1934-1943 e poi negli anni Cinquanta, con un respiro internazionale attraverso l'Istituto di diritto agrario internazionale comparato.

Nella ripresa dell'Archivio Scialoja-Bolla prendono evidenza il valore e il significato del collegamento di questa esperienza, proseguita per oltre settanta anni, con l'esperienza che, nel settore specifico dei demani civici e delle proprietà collettive, ha, da alcuni decenni, condotto il Centro Studi e Documentazioni dell'Università degli Studi di Trento, così come illustrato nel progetto editoriale di Pietro Nervi.

Questa proprietà collettiva esclusa anzi respinta, dopo il Codice napoleonico, dal Codice Civile italiano del 1865 e poi da quello del 1942, ha continuato invece a sopravvivere, regolata non dalla legge dello Stato ma dallo jus vivens presente nelle comunità agricole, specie montane, già fino dal periodo romano e medioevale e in ogni parte del mondo.

E' dunque un ordinamento, quello della proprietà collettiva, che lo Stato, la Regione e la Comunità europea non creano, ma riconoscono come già esistente e storicamente regolato dalla comunità locale, secondo un principio che nostra Costituzione del 1948 recepisce dalla teoria della pluralità degli ordinamenti giuridici.

La battaglia iniziata dalla dottrina agrarista per sottrarre dalla soggezione alle leggi sugli usi civici le comunità agricole, a partire da quelle dell'arco alpino, ha avuto un suo primo riconoscimento con l'articolo 34 della legge 25/7/1952 n. 1991 che riconosce alle comunioni familiari vigenti sui territori montani una loro autonomia; con l'articolo 10 legge 3/12/1971 n. 1102 quando fu confermata alle comunioni montane natura giuridica ben distinta dagli usi civici e una disciplina dettata dai rispettivi statuti e dalle preesistenti consuetudini. Passi in avanti sono stati compiuti con la successiva legge sulla montagna 31/12/1994 n. 97 all'articolo 3 che ha attribuito alle Regioni il potere di conferire a queste comunità la qualifica di persone giuridiche di diritto privato.

Il riconoscimento pieno della proprietà collettiva è tuttavia ancora ben lungi dall'essere compiuto perché, come ha detto il Grossi, "la proprietà collettiva è un ordinamento primario". Si tratta di comunità in cui lo scopo istituzionale è preminente e va oltre l'interesse individuale dei singoli partecipanti e, per questo sono inalienabili, inusucapibili, imprescrittibili. Si tratta di una proprietà privata destinata ad una produzione di interesse collettivo e cioè all'esercizio di un'impresa collettiva i cui risultati comprendono non solo la generazione presente sul territorio ma anche le generazioni future, tendendo a uno sviluppo rurale capace di accrescere, oltre alla qualità dei prodotti, anche la qualità della vita, mediante la produzione di beni e servizi e attività economiche extra agricole sino a raggiungere la multifunzionalità dell'impresa.

Si comprende allora perché la proprietà collettiva, anche se nasce da un ordinamento a base territoriale e definito privato (e quindi non gestibile con gli strumenti e la burocrazia della proprietà pubblica), non può essere identificata con una qualsiasi proprietà privata.

Una Rivista di studi sulla proprietà collettiva può nascere, quindi, solo sulla base di grandi cambiamenti che impegnino alla elaborazione di principi fondamentali sulle fonti del diritto e sulla concezione della proprietà, secondo l'intuizione che già fu del Bolla: ciò richiede un metodo di studi interdisciplinari tra diritto, economia, sociologia e tecnologia, allo scopo di raccogliere, nell'ambito di un territorio precisamente delimitato, gli elementi e le conoscenze necessarie per la vita delle comunità, intese come ordinamenti giuridici e quindi produttive di norme adeguate alla proprietà-impresa collettiva.

Giovanni Galloni
già Presidente dell'Idaic

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